Licenziamento per giusta causa: le inesatte dichiarazioni rese a terzi rilevano solo se vi è prova dell’intento fraudolento

Tribunale di Ivrea, ord. 8 febbraio 2023, n. 538, est. D'Amelio, A.M. (avv.ti Elena Fava e Alessandro Vergnano) c. S.L.B. srl

Con Ordinanza 538 del 2023 resa dal Tribunale di Ivrea, Sezione Lavoro, veniva annullato il licenziamento comminato per giusta causa alla lavoratrice la quale aveva fruito, senza averne diritto, di permessi ex L. 104 del 1992.
In particolare la domanda per la fruizione dei permessi era stata predisposta e presentata da un patronato; all’interno della domanda era stato indicato che la madre della lavoratrice, in relazione all’assistenza della quale veniva richiesto il riconoscimento dei permessi, non era ricoverata presso una struttura, circostanza questa non vera.
A fronte dell’accoglimento della domanda la lavoratrice fruiva di alcuni giorni di permesso (cinque nell’arco di due anni); tuttavia l’INPS, a seguito di accertamenti, revocava retroattivamente il riconoscimento dei permessi, non dovuti in quanto la madre cui la lavoratrice prestava assistenza si trovava ricoverata, presso un istituto di cura privato, sin dal momento della proposizione della domanda.
La datrice di lavoro, preso atto della decisione dell’INPS, licenziava la lavoratrice per giusta causa.
La lavoratrice impugnava il licenziamento, chiedendone l’annullamento, evidenziando come l’erronea predisposizione della domanda fosse imputabile all’addetta del patronato, la quale, pur a conoscenza della condizione di ricovero della madre (la quale era assistita dal medesimo patronato) aveva erroneamente compilato la modulistica online, in forza dell’erronea convinzione che il ricovero in struttura privata non fosse ostativo alla richiesta dei permessi ex L. 104/92.
Rilevava altresì la lavoratrice come, in ogni caso, non fosse la dichiarazione in sé ad assumere rilievo ai fini del licenziamento, ma bensì l’intento fraudolento nei confronti del datore di lavoro, intento non solo non indagato (né provato) dalla datrice di lavoro, ma altresì escluso da una serie di elementi indiziari (utilizzo di pochissime ore di permesso, condotta trasparente tenuta dalla lavoratrice nei confronti della datrice di lavoro, etc).
A seguito dell’istruttoria e dell’esame dei testimoni, il Giudice accoglieva la domanda di parte ricorrente.
Il giudicante evidenziava anzitutto come dall’istruttoria non fosse emerso che la falsa dichiarazione era stata resa dalla ricorrente.
In ogni caso il Giudice evidenziava che, anche qualora si fosse raggiunta la prova circa l’attribuzione della dichiarazione resa direttamente in capo alla lavoratrice, cionondimeno non vi sarebbero sufficienti elementi per ritenere il licenziamento fondato.
Infatti la condotta contestata alla lavoratrice era “all’evidenza […] condotta tenuta non in ambito lavorativo. Pertanto, detta condotta potrebbe riflettersi sul rapporto di lavoro, giustificando il licenziamento della lavoratrice, solo qualora la signora [–omissis–] avesse scientemente reso la falsa dichiarazione al fine di trarre in errore l’istituto previdenziale e ottenere il beneficio – che sapeva essere non spettante – di potersi assentare dal lavoro per tre giorni al mese senza perdere il trattamento retributivo. Diversamente, il mero errore compiuto nella compilazione della domanda ovvero l’errata conoscenza della normativa assistenziale non potrebbero ritenersi fatti idonei a recidere il vincolo fiduciario con il datore di lavoro”.
Atteso che l’onere della prova circa i fatti posti alla base del licenziamento grava pacificamente sulla datrice di lavoro, il Giudice rilevava che “Nel caso di specie detto onere probatorio non può dirsi assolto. L’istruttoria orale svolta, infatti, non consente di ritenere provato neanche che la ricorrente abbia reso la dichiarazione che ha condotto al suo licenziamento”.
In sintesi “la condotta della signora [–omissis–] sarebbe idonea a recidere il vincolo fiduciario che connota il rapporto di lavoro solo qualora la stessa avesse reso la falsa dichiarazione al fine di ottenere i permessi che sapeva non essere dovuti; l’onere di provare il ricorrere di dette circostanze incombe sul datore di lavoro; l’istruttoria svolta non consente di ritenere provato che la signora [–omissis–] abbia reso la falsa dichiarazione alla signora [–omissis-, l’addetta al patronato, ndr] in sede di compilazione della domanda; se anche si volesse ritenere che la signora [–omissis–] abbia reso detta dichiarazione, non può dirsi provato l’intento fraudolento atteso che, alla luce del materiale probatorio, è credibile che la stessa ritenesse erroneamente che la situazione di ricovero ostativo cui faceva riferimento la domanda era solo quello in struttura pubblica o temporaneo”.
Il giudizio si concludeva con l’accertamento dell’insussistenza del fatto attribuito alla ricorrente, con condanna della società convenuta alla reintegra della lavoratrice nel proprio posto di lavoro e pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.