Alla domanda antidiscriminatoria non si applicano le decadenze e le prescrizioni previste per le domande previdenziali

Tribunale di Busto Arsizio, sent. 6 marzo 2023, est. Molinari, E.S. (avv.ti Silvia Ingegneri e Alessandro Vergnano) c. INPS

Con Sentenza n. 74 del 6 marzo 2023 il Tribunale di Busto Arsizio ha accolto la domanda della lavoratrice madre, di professione assistente di volo, la quale aveva convenuto in giudizio l’INPS perché fosse accertata la natura discriminatoria della condotta dell’Ente, consistita in particolare nell’aver calcolato l’importo dell’indennità di maternità dell’assistente di volo assumendo come parametro di riferimento del calcolo, oltre alla retribuzione base, solo il 50% delle indennità di volo, anziché il 100% di tutti gli elementi retributivi.
Il Giudice adito si è anzitutto pronunciato sulle eccezioni di prescrizione e di decadenza sollevate dall’INPS, respingendole.
Secondo il Tribunale, non trova applicazione la decadenza prevista prevista dall’art. 47 del d.p.r. n. 639/1970, invocato dall’INPS, in quanto la norma risulta applicabile solo ove si controverta l’an del diritto ovvero del suo parziale riconoscimento.
Nemmeno può trovare applicazione il termine di prescrizione di cui all’art. 6 della legge n. 138/1943, atteso che l’indennità di maternità non è compresa nell’elenco di cui al citato articolo.
È stato rilevato altresì come, in ogni caso, la ricorrente avesse espressamente svolto un’azione discriminatoria, la quale si distingue dall’azione previdenziale in senso stretto sia per petitum che per causa petendi.
Il Giudice adito ha così precisato, richiamando un precedente del medesimo Tribunale, che nell’azione discriminatoria (anche se esercitata attraverso il rito ordinario) “la […] causa petendi risiede nel comportamento discriminatorio e non nella sussistenza di un rapporto assicurativo ed il petitum nell’accertamento dell’avvenuta discriminazione con conseguente rimozione dei relativi effetti, attraverso l’erogazione, a titolo risarcitorio, di una somma di denaro quale integrazione economica e ristoro del danno per la discriminazione subita e non quale indennità previdenziale“. Pertanto “Sia la causa petendi che il petitum nei due diversi procedimenti, previdenziale e antidiscriminatorio, sono diversi, poiché il diritto azionabile, nel caso dell’ordinario procedimento previdenziale, riguarda l’errato pagamento della prestazione, mentre, nel caso dell’azione antidiscriminatoria oggetto di causa, riguarda l’accertamento della natura discriminatoria di un determinato trattamento e la conseguente rimozione dei suoi effetti lesivi, in un’ottica restitutoria, compensativa, ma anche dissuasiva. […] Il bene della vita rivendicato, quindi, si ritiene non è <<esattamente coincidente con quello che la dipendente (recte: un dipendente qualsiasi) avrebbe potuto ottenere intraprendendo un’azione di adempimento dell’obbligazione previdenziale>>, come indicato al punto 9 dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 25400/2021, non essendo la lavoratrice in maternità <<un dipendente qualsiasi>>, in quanto la tutela della maternità ha un rilievo costituzionale che pone la dipendente in una condizione che necessita di particolare tutela, il cui danno patito può essere anche superiore alla mera differenza tra quanto erogato e quanto dovuto in base al calcolo fondato sul Testo Unico Maternità, essendo stato il trattamento deteriore riservato dall’Inps alle lavoratrici del settore volo frutto di una scelta deliberata e non di un mero errore nel calcolo della prestazione“.
Quanto al merito della domanda, il Tribunale adito ha rilevato che il calcolo adottato dall’INPS per la liquidazione dell’indennità di maternità contrasta con la disciplina di riferimento: infatti “il rinvio ai <<criteri previsti per l’erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie>> [di cui all’art. 22 del Dlgs 151/2001, ndr], diversamente da quanto ritenuto dall’ente previdenziale, deve intendersi riferito esclusivamente agli istituti che disciplinano l’indennità di malattia, quali, per esempio, i profili attinenti alla domanda amministrativa o al regime prescrizionale“.
Viceversa “l’indennità di malattia gode […] di una propria disciplina autonoma in ordine alla specifica indicazione dell’evento protetto, dei soggetti beneficiari e del livello di prestazioni garantite all’avente diritto” di talché “la disciplina del calcolo del trattamento economico di maternità, e dunque delle modalità di determinazione del quantum, si rinviene esclusivamente nell’art. 23 [del Dlgs 151/2001, ndr], che richiama solo gli elementi (id est voci retributive) che concorrono a determinare la base di calcolo delle indennità economiche di malattia mentre nulla dice in ordine alla misura della loro computabilità; ciò perché la norma stabilisce una specifica disciplina di calcolo, prevedendo espressamente che la retribuzione parametro, da prendere a riferimento per determinare, nella misura dell’80 per cento di essa (come stabilito dal precedente art. 22), l’indennità medesima (recte di malattia), sia costituita dalla <<retribuzione media globale giornaliera>> che si ottiene dividendo per trenta l’importo totale della retribuzione del mese precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo“.
Alla luce di tali considerazioni il Tribunale ha ritenuto che “nella base di calcolo dell’indennità di maternità spettante alla lavoratrice assistente di volo devono essere considerati integralmente tutti gli elementi retributivi costituenti la retribuzione del mese antecedente l’inizio del congedo obbligatorio e, in particolare, con computo dell’indennità di volo al 100%“.
Il Giudice, una volta “accertato e dichiarato che i criteri adottati da INPS per la liquidazione dell’indennità di maternità alla ricorrente sono discriminatori in quanto adottati in violazione degli artt. 22 e 23 T.U. 151/2001” ha ordinato all’INPS di cessare la condotta discriminatoria e di rimuoverne gli effetti, con pagamento del dovuto alla lavoratrice.